Massimo Bignardi

La coscienza e la vitalità delY istinto
“La cosiddetta coscienza civilizzata - sostiene Jung, riferendosi al-l’anima, in uno dei passi della sua ben nota introduzione all’incon¬scio, - si è nettamente separata dagli istinti di fondo senza, però, che questi ultimi siano scomparsi. Essi hanno semplicemente perduto ogni contatto con la nostra coscienza e perciò sono costretti ad af¬fermarsi in maniera indiretta”. Potrebbe essere questa una delle pos¬sibili traiettorie per avvicinarci alle tele ed alle carte che Giovenale ha realizzato in questi ultimi due anni, offrendoci un’ulteriore postazione dalla quale leggere le linee salienti della sua esperienza creativa. Uso il condizionale sia perché sono convinto che la posizione assunta dal-l’artista guardi alla vitalità di un lo collettivo e, dunque, al rapporto che la propria coscienza instaura con la società, accogliendo la vitalità dei simboli e con essi degli archetipi, sia per non allestire “architetture autoreferenziali” intorno al ‘soggetto’, rischio dal quale ci metteva in guardia Antonio Petrilli, in apertura della breve nota che accompa-gnava, unitamente a quelle di Enzo Battarra, di Santa Fizzarotti e di Giuseppe Frazzetto, il catalogo delle opere che l’artista beneventano aveva raccolto nel titolo Tauromachia, nel lontano 1989.
L’idea junghiana dell’“affermarsi in maniera indiretta” da parte del-l’istinto ci spinge verso la soglia del simbolico, cioè frontalmente ad immagini primordiali e al ruolo che esse svolgono nella nostra co-scienza. Simboli che Jung distingue in “naturali” e “culturali”. Penso che ai primi attinga l’immaginario di Giovenale o, meglio, che egli si serva nella pratica di rapporto con la memoria, di archetipi fonda- mentali delle sue origini, della sua collettività; sono queste immagini capaci di agitare, in senso vitalistico e non ossessivo, il tempo del ricordo, rinverdendolo ed attualizzandolo senza cadere nelle maglie della nostalgia di un tempo lontano, la sua infanzia. Uno sguardo nei territori del “sé” è quello che l’artista cerca di trasferire, sin dalle pri¬me esperienze, nelle forme della pittura; di un “sé” commisurato al contesto sociale, alle sue origini, ma anche alla vita che lo circonda, vale a dire la fervida congiuntura artistica registrata a Benevento negli anni Settanta e, in particolare, negli Ottanta. Una situazione ricostrui¬ta con estrema lucidità e passione da Antonio Petrilli che, nel suo libro / miei amici artisti (pubblicato dall’Associazione Proposta, nel 2000), la attraversa, senza, però, farsi prendere da ‘speculazioni’ sto- rico-critiche, bensì cercando di raccontare, semplicemente ricorda¬re, personalità, episodi, eventi, cronache di storie beneventane che si sono intrecciate alle vicende dell’arte italiana ed internazionale, sin dai primi del decennio Settanta. Un libro di brevi racconti che descri¬vono, con una scrittura corsiva, il contesto sobillato da un’attenzione ai segni dell’ancestrale legame con la terra, alle origini misteriose, lontane, profonde: insomma a quel repertorio iconografico che ha, in parte, sollecitato l’immaginario della generazione di artisti affermatasi proprio in quegli anni e che segnerà, profondamente, la formazione di Giovenale.
Profili zoomorfi che animano la mitologia propria della terra sanni¬ta, tornano oggi ad abitare l’astratto spazio della pittura di Giovena¬le: sono figure depurate dai grumi di colore che trattenevano, come quelle eseguite sul finire del decennio Ottanta, le tracce di ‘primitive scritture’, alla stregua dei progenitori di Lascaux o di Altamira che fermarono sulle pareti delle caverne - prime pagine dell’universa¬le storia delle immagini avviate nei millenni del paleolitico superiore - le animistiche forme di bisonti, di cervi, di mammuth. Gli impianti compositivi dei dipinti odierni riconsiderano, però, in chiave fauve, il valore del colore che si afferma con tinte pure, luminose e squillanti, depurate, cioè, dell’atmosfera oscura, sacrale-rituale dei primi lavori: una luminosità che cifra le figure, restituendole ad un racconto inti¬mo, diretto, innanzitutto attuale, vale a dire avvertito come essenza viva e presente. È un registro cromatico che Giovenale aveva, in par¬te, già sperimentato in quella serie di opere eseguite nei primissimi anni Novanta e presentate nella personale allestita, nel 1994, allo Studio Oggetto di Milano: tele sulle quali l’artista trascriveva le scene e gli oggetti incontrati nel quotidiano peregrinare dello sguardo nello spazio domestico, senza rinunziare a quell’“arcaicità atemporale della memoria” che, prontamente, Frazzetto aveva segnalato nel citato ca-talogo del 1989. Un ricordo che trascende il tempo accettando una nuova misura dello spazio, così come testimonia Alla finestra !'infini¬to, oppure L’incubo delkaos, attribuibili al 1993, dipinti ove l’accento transavanguardista si avverte maggiormente, in particolare la traccia delle esperienze di Francesco Clemente.
Diversamente, invece, dalle opere precedenti, ove la connotazione era più marcata dall’evidente richiamo ad un’immaginazione primi¬tiva, rupestre - penso ad opere quali Toccata e fuga, Tempestoso, Cosmo puro, tecniche miste su tela realizzate sul finire degli anni Ottanta - quelle attuali fanno ricorso ad una sintesi compositiva fon¬data suH’immediatezza della linea e sul suo disporsi sia in funzione della forma-sagoma, sia quale profilo (segno nero) che rimarca le piane ed accese modulazioni di colore. I suoi animali, queste nuove immagini che s’intrecciano tra loro generando relazioni analogiche, declinando atmosfere espressioniste, trattengono, ancora, il motivo della natura che Giovenale guarda (come lontana suggestione, oserei dire quale tema di un ‘primitivo Novecento’) dagli impaginati di Franz Marc, affidando al colore la forza di un grande flusso vitalistico e, al tempo stesso, simbolico. Il motivo perde, in particolare nelle opere eseguite quest’anno, quel valore di natura primitiva e istintiva del¬l’uomo, sovraccarica di una ‘materia’ sacrale e di un ‘tempo’, proprio del rito: diviene confessione di uno stato d’animo profondo, segnale di un pacificato colloquio con l’universo delle sue origini contadine.
L’artista non avverte più la necessità di confrontarsi con le minaccio¬se immagini che riempivano i racconti dell’infanzia, tanto meno con il duro esistere delle fatiche contadine, con i tempi imposti dagli eventi naturali, spessi forieri di precarietà o di disgrazie: il ductus pittorico si raffina, sino a sfiorare l’estrema sintesi alla quale era approdato Matisse negli ultimi anni di vita.
Giovenale ritrova la felicità di narrare la sua intima vicenda, il suo mondo, quello abitato dal racconto della terra e delle ‘figure’ che la abitano: la coscienza accoglie la vitalità immaginativa di quelle im-pronte che l’istinto svela dal profondo.

Massimo Bignardi

Simona Sandric-Gotovac

Vlado Gotovac (1930 - 2000)
Poeta, saggista, filosofo, giornalista televisivo, radiofonico e di carta stampata, critico d’arte, grande oratore e uomo politico parlamentare croato, fondatore del Partito liberale in Croazia, apparteneva a quella generazione di scrittori che con autentica forma di espressione lin-guistica in poesia e prosa ha determinato la metamorfosi dello sce¬nario letterario in Croazia (allora Jugoslavia), dagli anni Cinquanta in poi. Il contenuto innovativo nelle sue opere scritte, unitamente alla creazione di nuova struttura giornalistica, diede un impulso vigoroso alla vita sociale, culturale e letteraria in Croazia.
Sebbene Gotovac sia stato uno dei rappresentanti più in vista del-l’apertura culturale tramite la rivista Krugovi, la sua fortuna critica e la sua posizione storica sono alquanto diverse da quelle degli altri. Anzitutto, il suo percorso creativo era bloccato per un lungo periodo, poco meno di due decenni complessivi di carcere e di pubblicazio¬ne proibita (tra il 1972 e il 1989). Tuttavia, lui allora voleva e sapeva creare e cogliere gli stimoli delle avanguardie storiche e delle diverse correnti attuali ed europee, dal surrealismo all’esistenzialismo, dal¬l’ermetismo fino allo strutturalismo (appena sorto nel momento).
La sua voce fu alta nel travaglio degli anni ’70, ’80 e ’90 del secolo scorso che portò la Croazia all’indipendenza, rimanendo un com-
battente puro ed intran¬sigente in difesa dell’uo¬mo, delle sue libertà, della democrazia, dei di¬ritti umani, della giustizia sociale e delle diversità dei popoli che credeva una ricchezza e non un motivo di discordia e di odio.
Nella guerra fredda, che lo coinvolse come in¬tellettuale e giornalista
    Senza volerlo, non sem¬
pre trovò sostegno e giustificazione alle sue proposte. Dovette aprirsi la propria strada, spesso trovandosi in direzione opposta a quella percorsa dal regime comunista al potere in Jugoslavia che già scric-chiolava. Si preannunciava la fine drammatica di un sistema in crisi e il suo successivo crollo, rappresentato dal crollo del Muro di Berlino nel 1989.
Quindi Gotovac optò coraggiosamente per una via propria, libera, differente e distinta. Fu tra coloro che primi chiesero il massimo, ri-fiutando qualsiasi compromesso. Non volle unirsi né proseguire il cammino con coloro i quali non erano disposti ai massimi sacrifici. “Chi non è pronto a perdere tutto, non merita la nostra attenzione”. Lo scrisse nel suo libro, intitolato “La poetica deH’anima”. Divenne un protagonista fra gli outsiders dando a questo termine sportivo anglo-sassone un significato al tempo stesso sociale, critico e poetico. Non a caso il suo libro più provocatorio ha per titolo “Annotazioni di un outsider". Per tale scelta pagherà un prezzo altissimo. Il poeta fu incarcerato due volte. Trascorse sei anni dietro le sbarre. Duramente condannato dal regime comunista jugoslavo a quatto anni di carce¬re (1972-1976) più quattro anni di libertà vigilata. Successivamente, soltanto perché aveva osato parlare prima che scadesse il termine di pena inflitta dando alcune interviste ai giornalisti stranieri, tra i quali anche italiani (Carla Falcone, giornalista de “Il Tempo”), scontò altri due anni di dura prigionia, più quattro anni di libertà limitata. Così, separato dalla sua generazione, il nome Gotovac come poeta e let-terato sarà cancellato per decenni da tutte le opere letterarie, dalle antologie di letteratura e poesia, dai libri di testo per le scuole medie superiori e dai testi universitari usati presso le Istituzioni pubbliche Jugoslave.
Per quasi due decenni, tra il carcere e la libertà vigilata, Gotovac vive isolato in silenzio assoluto, da prigioniero politico, pur non essendo mai direttamente in politica. Fu condannato come giornalista, capo redattore responsabile del giornale settimanale per l’attualità, la cui- tura, l’arte e la scienza “Hrvatski Tjednik”. Subì dura condanna per aver avuto il coraggio di scrivere, nei suoi Editoriali, in difesa della libertà individuale dell’uomo, del diritto di esprimersi attraverso la parola pronunciata e scritta, del promuovere la democrazia e la giu¬stizia sociale, in altre parole la condanna fu per il “delitto verbale”. Scompare così dalla vita pubblica l’uomo Vlado Gotovac ed insieme a lui le sue opere e il suo operato.
Ma il prigioniero non si arrende. Nel carcere scrive di nascosto su carta igienica, durante l’orario di “riposo obbligato” dopo il lavoro in falegnameria. Mentre gli altri colleghi prigionieri, criminali comu¬ni, riposavano, lui sfruttando il momento si metteva accovacciato sul WC (“bagno turco”) all’aperto dove tutti potevano controllare a vista d’occhio se il WC fosse libero o occupato. Annotava i pensieri della mente e le reazioni dell’animo provato. Quanti pensieri sfuggiti per¬ché era impossibilitato a scrivere nel momento di ispirazione! Solo perché gli fu impedito di tenere la carta e la penna gli fu proibito di scrivere. Il regime aveva paura della parola scritta dal poeta. Gotovac scrive nel carcere: “non mettete a tacere il poeta, ci saranno meno parole in mezzo a noi, ed un’epoca andrà perduta”. Così, rubando le parole, nacquero le pagine più belle di letteratura croata scritte nel diario di un prigioniero: “Poetika Duse” (Poetica dell’Anima) e “Zvjezdana kuga” (Pestilenza stellare) che verranno pubblicate circa venti anni dopo (1995).

Simona Sandric-Gotovac

Antonio Petrilli

Giovenale per Gotovac
“La pioggia degli ultimi giorni e i primi freddi autunnali non lasciava¬no prevedere niente di buono per la sera. Ma all’ora in cui doveva iniziare il convegno che precedeva l’inaugurazione della mostra di Giovenale Per Vlado Gotovac la pioggia smise di cadere e il castello di Casalduni acquistò quella calma tranquilla che, insieme alle ultime luci del giorno, fece da incredibile cornice ad una serata di alta sug¬gestione e spiritualità”.
Iniziavo, così, un breve scritto di cronaca in occasione della prima mostra di Giovenale dedicata al poeta croato.
E, sempre in quella occasione, sottolineavo che Giovenale non era caduto nella trappola della presunzione di tradurre o interpretare il poeta: “infatti egli - dicevo - ha tentato solo di ricostruire l’atmosfe¬ra, l’humus spirituale da cui i versi del croato erano germogliati”.
E’, quindi, evidente che l’incontro (spirituale, prima che artistico) di Giovenale con Vlado Gotovac risale ad alcuni anni fa, quando il pa-triota croato era morto da poco.
Giovenale aveva avuto la possibilità di leggere le poesie di Vlado gra-zie aH’amicizia del compianto dott. Giuseppe Zeppa con la signora Simona Sandric Gotovac.
Quell’incontro aveva ispirato a Giovenale una serie di opere che fu-
rono esposte in una splendida mostra al Castello di Casalduni (BN), e in tale occasione la figura del patriota-poeta fu mirabilmente ricor¬data da eminenti uomini di cultura, fra i quali l’indimenticato Gianni Vergineo.
Ma quell’ispirazione in Giovenale non è mai svanita ed ora un’altra serie di lavori è nata, in maniera meno diretta, ma non per questo meno forte e sentita, dal ricordo della figura di Vlado.
Le opere, infatti, non hanno quella stretta relazione con la poesia di Gotovac presente nei nove dittici della precedente mostra, ma sono permeate della stessa genuinità e spontaneità (l’¡stìnto a cui fa riferi-mento Massimo Bignardi nel saggio che segue).
Certo, i contenuti cambiano, le figure oranti e l’atmosfera di intima sacralità sono meno diffuse ed evidenti, i colori acquistano un vigore sicuramente più prorompente, ma lo spirito indomabile e generoso del poeta croato, profondamente ammirato e assimilato da Giovenale dal momento del primo incontro con quei sofferti versi, continua ad ispirare i lavori dell’artista sannita che ancora una volta ha voluto de-dicare questa serie di splendidi lavori al patriota scomparso.
Questo catalogo, oltre a contenere le immagini delle 28 opere del-l’artista, ospita uno scritto della signora Simona Sandric, che illustra la figura di Vlado Gotovac e un illuminante saggio di Massimo Bignar¬di, che analizza l’iter artistico-culturale di Giovenale sottolineandone la vitalità e l’istintività.

Antonio Petrilli