Massiomo Bignardi
Questa mostra è l’occasione per fare una piccola riflessione sul lavoro di Giovenale.
Oggi ho avuto il piacere di incontrarlo nel suo studio e di rendermi conto meglio di come il suo sguardo si sia formato nel tempo e nello spazio delle sue origini. Il suo lavoro, principalmente la parte attuale dell’esperienza pittorica, ho avuto l’opportunità di conoscerla per il tramite di un altro artista ormai da tempo beneventano: Arturo Pagano, che seguo da anni. Avevo conosciuto la pittura di Giovenale attraverso i cataloghi di mostre curate da Enzo Battarra e da Antonio Petrilli... La critica, per sua fortuna, ha la possibilità di trasferire nel linguaggio delle parole, quello che è il mistero delle immagini e, ohimè, sappiamo tutti che le immagini sono poesia pura. Attraverso queste opere leggiamo la luminosità di quel primordio aurorale che segna la memoria di Giovenale, che lo richiama ai ricordi della giovane età. E un primordio, un’aurora della sua memoria che rimette in luce l’abbecedario di incontri che segnava il tempo del suo incontro con la natura: le mucche, i falciatori, i contadini, ma soprattutto il lavoro, l’attesa. Diceva Kandinsky che ciò che noi ricordiamo della nostra infanzia sono i colori e non i segni, perché i segni sono già scrittura e hanno un codice; i colori sono esperienza del magico, emozione che tocca le corde dell’istinto: il rosso è una fiamma, il blu è il cielo, l’azzurro è il mare, il verde è il prato; ma non perché le cose coincidano per un repertorio di corrispondenze formulate, bensì perché è l’esperienza stessa dell’esistere che ci porta ad alzare gli occhi e a scoprire la bellezza del cielo, con essa la calma e la serenità dell’infinito, una profondità che imprime il tempo alle attese della vita.
I primi lavori di Giovenale furono raccolti nel volume pubblicato nel 1989 accompagnati dai testi di Giuseppe Frazzetto, di Enzo Battarra, di Santa Fizzarotti e di Antonio Petrilli: la lettura critica rinunciava a qualsiasi attraversamento o ricostruzione storica, in virtù di un’apertura alla curiosità del tempo, a quel “fuoristrada” segnalato da artisti che non seguivano le linee di tendenza che potevano essere vicine al linguaggio del Novecento. Giovenale, sul finire degli anni Ottanta, metteva a registro una serie di figure tratte dal registro della natura, da quei luoghi della memoria, abitata da sagome e profili di di animali, soprattutto teste di buoi dai grandi occhi, riproposte a metà tra la scrittura di un primordio incontrato nella luce ancora sognante dell’alba e la vitalità di una figurazione primitiva, assunta come radice di un profondo narrativo che spinge ancora più indietro della memoria biografica. Oggi, mentre mi raccontava del suo stare a metà fra il medico e il pittore con quella calma che lo connota, ho provato ad immaginare la cadenze della sua giornata tipo, le letture, l’andare tra l’esterno della vita e la nascosta indagine tra i libri, tra i repertori di immagini della storia dell’arte: cercavo di sondare le vicinanze a Marc, per gli animali e quindi alla pagina più ‘animistica’ all’espressionismo. I tempi della sua esperienza, fino alle ultime opere, seguono un andamento irregolare; potremmo dire che, mettendoli in fila indiana, i dipinti sembrano scandire il tempo lungo del racconto. Narrazione di figure e di luci nascoste nelle pagine dell’origine che diventa poi racconto della casa, e questo con i dipinti esposti nella personale allestita alla Galleria Oggetto di Milano e poi a Catania (e lì all’epoca l’artefice fu Francesco Gallo). In quest’ultima mostra Giovenale mise a registro, sulla tela, brani di una narrazione domestica, se non proprio intimista, con spazi abitati da oggetti della sua casa: quel dizionario di forme naturali, di una natura primordiale e primigenia lascia il posto ad un abbecedario della casa, dei luoghi, ma anche del paesaggio...
Giungiamo, così, alle opere recenti che ho visto nel suo studio e speriamo di vedere, quanto prima in mostra: in esse l’artista ha fatto piazza pulita di quei grumi, di quegli spessori di colore, avanzati come nuclei implosivi d’impronta esistenziale. Ora tutto è stato semplificato anche se continuano a comparire - quanto rilevavamo con Antonio Petrilli questa mattina allo studio - le teste di toro, ridotte e semplificate, però, a triangoli segnati da un colore piano, disteso e di forte luminosità. “E arrivato alla forma di Matisse”, per intenderci a quello degli anni Cinquanta, quando il decoupage, invaderà il suo ricco immaginario. Giovenale crea uno spartito continuo di piani, di colori, di sensazioni, ma soprattutto cerca di mantenere l’essenza della terra che lo circonda e che continua ad essere il punto di riferimento del suo sguardo. Una terra, quella beneventana che offre uno scenario pressoché unico per la storia della Campania: una terra ove si annidano le magiche ritualità della tradizione che hanno fomentato una generazione di artisti contemporanei[...]
Massimo Bignardi
Novità nella continuità
Io credo che parlare di un artista non sia mai semplice, perché le varie fasi della sua evoluzione artistica contengono sempre elementi delle fasi precedenti e preludono a sviluppi successivi.
Il caso di Giovenale è emblematico in tal senso: quando, in occasione dell’ultima personale organizzata presso la Biblioteca Provinciale di Benevento e riproposta successivamente a Roma nell’Opificio Contumaciale gestito da Bianca Menna (alias Tomaso Binga), riguardai insieme a Massimo Bignardi tutta l’opera di Giovenale, mi resi conto di quanti elementi rimanessero costantemente presenti insieme ad elementi nuovi e a nuove soluzioni compositive.